Domenico Aliperto
Cosa si può dire di Apple Pay a quasi due anni dal lancio e a ridosso di un altro importante annuncio ufficiale – quello dell’iPhone 7, previsto per il 7 settembre – da parte di Cupertino? Nell’autunno del 2014, quando in America la piattaforma della Mela ha fatto da apripista nel mondo dei mobile proximity payment di massa, le aspettative erano ovviamente altissime. User experience come marchio di fabbrica, data protection garantita dal secure element e dal riconoscimento biometrico, disponibilità ad accogliere il servizio (soprattutto negli Stati Uniti) da parte di retailer e banche teoricamente ubiqua, data la forza del brand. Erano queste le caratteristiche di Apple Pay che suggerivano a molti analisti l’ipotesi di una rapida espansione in gran parte del globo. Ma ad oggi sono solo otto i mercati in cui è stato introdotto il sistema: USA, Regno Unito, Cina, Australia, Canada, Singapore e, a partire da luglio, in Svizzera e Francia (dove è già accettato da catene come Bocage, Le Bon Marché, Cojean, Dior, Louis Vuitton, Fnac, Sephora, Flunch, Parkeon, Pret), con la prospettiva, dopo il recentissimo sbarco a Hong Kong, di estenderlo in Spagna entro la fine del 2016.
Per l’Italia i rumor più recenti, già anticipati nei mesi scorsi da alcuni blog specializzati, parlano di incontri tra uomini di Cupertino e rappresentanti dei principali istituti bancari tricolore per la definizione di una roadmap che dovrebbe culminare a metà 2017. Le scelte dei mercati su cui proseguire con la commercializzazione del servizio sono dettate da una rotta ben precisa, così sintetizzata dalla numero uno di Apple Pay Jennifer Bailey: «Teniamo conto della diffusione dei nostri prodotti nel Paese, di quella delle carte di credito e di debito e della copertura dei pagamenti contactless». Un dato, quest’ultimo, in continua evoluzione, dato che non solo per merito di Cupertino la pratica sta prendendo piede con tassi di crescita interessanti. Negli Stati Uniti il 20% dei possessori di iPhone 6 dichiara di avere utilizzato almeno una volta Apple Pay, ma il mercato nel complesso va ancora a rilento: solo il 3,5% delle transazioni potenziali (quelle cioè che hanno da una parte un cliente con un dispositivo compatibile con il servizio, dall’altra un merchant con un Pos adatto ad accettarlo) avviene tramite iPhone o Apple Watch. E ciò nonostante, Tim Cook ha spiegato che, stando a quanto dichiarano i retailer, attualmente il 75% delle transazioni contactless effettuate negli States avviene tramite Apple Pay.
Secondo la società di ricerca Timetric le operazioni americane pesano per la quasi totalità del transato generato nel 2015 da Apple Pay, che si aggirerebbe sui 10,9 miliardi di dollari. Una cifra considerevole, se paragonata a quanto messo in moto per esempio da Samsung Pay, circa 1,78 miliardi di dollari per 100 milioni di transazioni, ma ancora poco rilevante rispetto a un settore che, con altre logiche e in altre regioni del pianeta sta muovendosi a velocità diverse: basti pensare che il transato di Apple Pay è inferiore al volume di pagamenti mobile effettuati in Kenya, dove operatori come M-pesa stanno letteralmente rivoluzionando il modo di acquistare prodotti e servizi per persone che non solo non dispongono di carte di credito, ma spesso nemmeno di un conto corrente bancario.
Un mercato in cui le carte non mancano (e vengono abbondantemente usate) è quello del Regno Unito. Con 86 milioni di schede contactless e un transato di 14 miliardi di dollari nel solo 2015, la Gran Bretagna sembrerebbe il terreno d’elezione per una proposta come Apple Pay, che però stenta a decollare proprio per la mancanza di un vero e proprio valore aggiunto nell’esperienza d’uso offerta dal servizio rispetto alle carte tradizionali.
In realtà anche in Australia i pagamenti digitali e in partciolare i pagamenti contactless sono estremamente diffusi, ma in questo caso il freno allo sviluppo della piattaforma di Cupertino è più che altro rappresentato sia da una scarsa diffusione sia dei terminali predisposti al servizio, sia soprattutto dalla mancata adesione al circuito di molte banche. La società di Tim Cook ha addirittura inviato una lettera all’Antitrust australiano (Australian Competition & Consumer Commission, ACCC) oltre che agli istituti che stanno ostacolando lo sviluppo del servizio danneggiando, secondo Apple, il mercato e i propri clienti. I tre principali gruppi del Paese, Commonwealth Bank of Australia, National Australia Bank and Westpac Banking Corp (a cui si sono poi aggiunti Bendigo e Adelaide Bank) avevano infatti proposto ad Apple un accordo per permettere ai possessori di iPhone di integrare la funzione di mobile payment via NFC con wallet proprietari. Al diniego di Cupertino, che non ha concesso simili condizioni in nessun altro mercato, è corrisposta la reazione delle banche che hanno determinato una vera situazione di stallo, visto che tra le maggiori società, attualmente, solo ANZ (Australia and New Zealand Banking Group) supporta Apple Pay. E proprio su questa sorta di guanto di sfida lanciato al sistema è stata costruita la campagna pubblicitaria del servizio (nel video in basso). Ora si attende il parere ufficiale dell’Antitrust che dovrebbe arrivare a ottobre. Ma sembra che retailer e associazioni degli istituti di pagamento locali si siano già schierati dalla parte della banche.
E il Far East? La Cina, il cui giro d’affari sotto il profilo dei mobile payment vale – secondo le stime di iResearch – mille miliardi di dollari, ha dato un buon impulso alle sottoscrizioni al servizio, ma non bisogna dimenticare che piattaforme come Wechat e servizi Fintech come quelli di Tencent sono veri e propri dominatori di un mercato governato da logiche peculiari. E come se non bastasse hanno appena fatto irruzione scena le offerte di altri due big dell’ex Celeste Impero. Parliamo di Xiaomi Pay e Huawei Pay, i mobile wallet dei principali costruttori di smartphone cinesi.