Domenico Aliperto
Mentre in Corea, Usa e Regno Unito comincia a consumarsi la guerra fredda tra Apple Pay, Samsung Pay e Android Pay – una guerra che forse impensierisce più le banche, gli operatori finanziari tradizionali e i gestori di servizi mobili che non i diretti interessati – rimane in penombra uno sconfinato mercato potenziale che potrebbe dare sfogo proprio a chi tra i big dei rispettivi settori si sente minacciato dai nuovi player del settore fintech. Si tratta dell’Africa subsahariana, dove la mobile finance è già una consuetudine affermata (anche se non industrializzata) in Paesi come il Kenya e il Sudan, mentre rappresenta una gigantesca opportunità in altre piazze come il Madagascar, il Senegal, il Mali e la Costa d’Avorio che, seppur lentamente, stanno intraprendendo il percorso dell’emancipazione aperto dalla diffusione dei telefoni cellulari.
Un mercato da 1,5 miliardi di dollari
Dalle transazioni elettroniche alle polizze assicurative telematiche passando per il microcredito e il trasferimento di denaro, banche e operatori telefonici disporranno entro il 2019 di circa 250 milioni di potenziali clienti, ovvero di individui di età superiore ai 15 anni privi di un conto corrente ma dotati di un dispositivo mobile e di un reddito sufficiente (500 dollari all’anno) a innescare dinamiche di consumo durature. In ballo ci sarebbe un giro d’affari di circa 1,5 miliardi di dollari. Le condizioni per costruire un business sostenibile? La realizzazione di un’infrastruttura a basso costo ma interoperabile, efficiente e sicura, la creazione di un network di promotori e un approccio totalmente nuovo al risk management. È questa in estrema sintesi la diagnosi del rapporto “Africa blazes a trail in mobile money”, stilato da Boston Consulting Group (BCG) e per l’appunto dedicato alle strategie che banche e telco dovrebbero adottare se intendono farsi strada tra le economie del Continente nero e replicare il successo di Safaricom e del suo M-pesa in Kenya, la case history per eccellenza quando si parla di mobile payment in Africa. Ma non basta ricalcare le orme di Safaricom (che ha raggiunto ormai i 17 milioni di utenti ed è ora controllata al 40% da Vodafone) per partire col piede giusto: BCG sottolinea che M-pesa ha raggiunto certi traguardi sia per l’abilità con cui ha saputo diffondere il proprio servizio attraverso un network adeguato di agenti di vendita, sia perché ha avuto il sostegno del governo keniota, che ha intravisto nella piattaforma un’opportunità per promuovere lo sviluppo commerciale delle aree rurali. Il modello infatti non ha funzionato nel momento in cui Safaricom ha provato, per esempio a esportarlo in Sudafrica.
Semplicità e sicurezza vanno comunicati attraverso marketing e forza vendita
Le premesse per provare a innestare una proposta riguardano, come detto, prima di tutto l’infrastruttura: il tema della sicurezza è centrale, se si vuole convincere una popolazione da sempre abituata a usare il contante a dematerializzare banconote e monete. Basare le transazioni elettroniche sull’SMS, lo strumento principale usato finora, non va incontro a questo genere di esigenze. D’altra parte, adottare sistemi di crittografia rischierebbe di essere antieconomico e poco pratico: nella migliore delle ipotesi, i milioni di utenti che già possiedono un telefono portatile dovrebbero sostituire la scheda SIM per implementare, per esempio, il protocollo STK (SIM application Tool Kit). Una soluzione intermedia potrebbe essere quella adottata dall’istituto finanziario kenyota Equity Bank, che ha reso disponibile una sottile pellicola da applicare alle SIM tradizionali per renderle più sicure. Il secondo elemento è rappresentato dalla forza vendita: senza una squadra di promotori che spieghino il servizio specialmente lontano dalle aree urbanizzate, proponendo periodi di prova gratuiti e favorendo il passaparola (vera chiave di successo per la diffusione di servizi di questo genere), rimarrà estremamente difficile creare una massa critica che renda l’operazione sostenibile.
Agire da big, pensare da startup
Ma tutto questo non basta: occorre trovare un equilibrio tra l’approfondita conoscenza dei regolamenti sui servizi finanziari (a cui, generalmente, per il
momento sono sottoposte le banche ma non i fornitori di mobile wallet, ovvero le telco) e un approccio al mercato più da startup che da operatore tradizionale, con una personalizzazione dei servizi e un’attenta valutazione dei rischi area per area, mancando quasi del tutto strumenti di misurazione legati alla liquidità del denaro. Bisogna infine imparare a conoscere un nuovo tipo di consumatore – ammesso che possa già essere chiamato così – per individuare quali servizi e modalità di utilizzo risultano più in linea con la sua esperienza quotidiana. Microcredito, donazioni, transazioni commerciali: a ciascuna categoria di operazione corrispondono, a seconda delle zone geografiche, specifiche esigenze e aspettative.
Banche al bivio: partnership o soluzioni in-house?
Nella corsa al mercato africano le telco partono decisamente più avvantaggiate. Ed è per questo che le banche che puntano alla creazione di servizi finanziari mobile hanno tutto l’interesse a collaborare con gli operatori telefonici, attraverso la creazione di joint venture oppure trasformandosi a propria volta in operatori virtuali. Opzione, quest’ultima, che conferirebbe alle banche maggiore autonomia, ma che implicherebbe d’altra parte costi maggiori e più rischi legati alla scarsa esperienza nel settore.
Una nuova opportunità per le telco
Per le telco invece la sfida è prevalentemente quella dell’interoperabilità. La maggior parte degli operatori è per il momento concentrata sulle revenue (in forte crescita) legate ai servizi voce e dati, mentre tendono a vedere i mobile wallet come un’offerta complementare e non strategica. Ma riuscire a renderla tale in mercati in fibrillazione come quelli dell’Africa subsahariana significa permettere ai vari account, servizi e piattaforme di poter dialogare tra loro per effettuare transazioni senza confini, esattamente come fanno i numeri di telefono, che non conoscono limitazioni di questo genere passando da operatore a operatore. Sembra banale, ma è questo, essenzialmente, che permette al mercato delle telecomunicazioni di esistere. Fino a quando le soluzioni resteranno strettamente proprietarie e non interoperabili, anche per le telco il business stenterà a decollare.
Agire in quattro mosse, agire in fretta
Qualunque sia la strategia adottata dalle banche e dalle telco, BCG prevede quattro fasi specifiche per lo sviluppo dei progetti sul territorio africano. La prima presuppone l’analisi delle capacità attuali di operare rispetto alle skill richieste dal mercato. Si tratta di uno screening utile soprattutto a valutare partnership, acquisizioni o sviluppo di nuove divisioni ad hoc. Questa fase dovrebbe impiegare dai due ai quattro mesi di tempo. Il secondo livello ha a che fare con la realizzazione della piattaforma e il suo lancio sul mercato. Entrambe le operazioni richiedono la massima elasticità per eventuali cambi di marcia in corsa, nonostante le soluzioni impiegate debbano essere complete e affidabili, e dovrebbero essere svolte nell’arco di 15 mesi al massimo. Segue la crescita commerciale della proposizione, la fase forse più delicata del processo, in cui promotori e agenti di vendita faranno la differenza in un processo che può durare dai 12 ai 18 mesi. Infine, una volta consolidata, bisognerebbe aprire la piattaforma a servizi di partner e terze parti che possano ampliare le situazioni e i bacini di utenza. Ma sfruttare questa opportunità non significa semplicemente coglierla. È necessario farlo in fretta, prima che arrivino nuovi inaspettati player. Basti pensare ai sonnolenti contesti di Europa e Stati Uniti: fino a dieci anni chi mai avrebbe pensato tra grandi banche e telco di dover fare un giorno i conti con Google, Apple e Samsung?