Domenico Aliperto
È passato un anno esatto da quando Franco Cimatti, assumendo la presidenza di Bitcoin Foundation Italia, diede il via al capitolo nazionale del movimento che in tutto il mondo promuove e diffonde l’utilizzo dello strumento di e-payment più chiacchierato della digital economy. Fin da quando Bitcoin ha cominciato a prendere piede, due sono state infatti le fazioni che si sono contrapposte nel definire limiti e pregi di quella che, ancor più che una criptomoneta, è una vera e propria filosofia con l’obiettivo di ribaltare il paradigma cui sottendono le attuali politiche monetarie globali.
Da una parte, la community guidata nella Penisola da Cimatti (noto nell’ambiente col nickname Hostfat), sostiene che Bitcoin e le criptomonete in generale sono l’unico strumento capace di strappare il controllo della valuta a Stati e Banche centrali, che ne alterano il valore a proprio piacimento a scapito del comune cittadino. Dall’altra, schiere di commentatori istituzionali, analisti ed economisti considerano il meccanismo poco trasparente, non abbastanza sicuro e soprattutto ancora troppo soggetto a manovre speculative che distorcono continuamente il prezzo della divisa virtuale. Ma per il presidente di Bitcoin Foundation Italia sono proprio gli speculatori quelli che, rischiando il proprio denaro, contribuiscono a stabilizzarne pian piano il valore. “Così come sono convinto che l’ingresso sulla scena di grandi nomi, a partire da Microsoft, darà una grande spinta al progetto, specialmente nel nostro Paese”, dice Cimatti a Pagamentidigitali.it.
Nel frattempo, però, la strada è in salita…
In Italia scontiamo una situazione eccezionale rispetto ad altri Paesi, per lo meno in base a ciò che ho visto io durante un anno speso a parlare con le associazioni di categoria. Siamo molto indietro. In questo momento le persone, le imprese, hanno altri problemi a cui pensare, non riescono a focalizzarsi su qualcosa di nuovo, e chi adotta la criptomoneta lo fa principalmente per questioni di pubblicità, visto che Bitcoin è ancora qualcosa che fa notizia. Ma è una faccenda anche culturale: i commercianti non si fidano in primo luogo perché, da noi, un servizio gratuito è automaticamente percepito come una truffa. E poi temono che effettuare operazioni in Bitcoin possa attirare un’ingiustificata attenzione della Guardia di Finanza.
Ci sono anche degli oggettivi limiti dello strumento però, soprattutto al di fuori dell’ambito e-commerce. Cosa si può fare per comprimere i tempi di notifica dell’avvenuta transazione?
È vero: in un negozio fisico nessuno sarebbe disposto ad aspettare dieci minuti per ricevere la notifica. In realtà la transazione sul network si vede istantaneamente: la conferma occorre per evitare che chi manda il pagamento effettui un “double spend”, ovvero ordini una transazione all’indirizzo di chi dovrebbe riceverla per poi, subito dopo, inviarne un’altra contraria, che di fatto annulla la prima. Per quanto questo problema, in situazioni comuni di scambi faccia a faccia, sia assai improbabile e rischioso per lo stesso ipotetico truffatore, ci sono comunque già soluzioni tecniche che possono ovviare. Se i miei Bitcoin e quelli del mio interlocutore sono contenuti all’interno dello stesso wallet, CoinBase per esempio, la notifica è immediata. Qui però di solito arriva un’altra obiezione: tenere i propri Bitcoin su wallet di terze parti li sottopone al controllo delle chiavi private da parte del service provider. Se il gestore decide per qualsiasi ragione di bloccare l’account o di imporre delle limitazioni agli scambi, l’utente è vincolato.
E quindi?
Il wallet creato da Lawrence Nahum, GreenAddress, utilizza rispetto a portafogli tradizionali come CoinBase e Blockchain sistemi avanzati di chiavi criptate, e per questo non è in grado di controllare gli account. Dunque se io e l’utente con cui effettuo la transazione abbiamo entrambi un account su GreenAddress, la notifica viene emessa in tempo reale, e senza essere sottoposti ai vincoli di cui parlavo.
GreenAddress e gli altri wallet che offrono queste nuove garanzie richiederanno però delle commissioni. Uno dei punti di forza di Bitcoin non è sempre stato, rispetto ad altri metodi di pagamento, l’assenza di fee?
Nahum ha dichiarato che per l’uso personale, come per esempio il money transfer, non saranno applicate commissioni, mentre per altre attività più professionali probabilmente sì. Ma francamente non so ancora che tipo di fee intende applicare, se percentuale o fissa. Si tratta comunque di somme irrisorie rispetto a quanto si paga con i sistemi tradizionali, e parliamo di cifre che soprattutto i forti speculatori saranno disposti a spendere: quando bisogna vendere o trasferire Bitcoin, per massimizzare il profitto la tempestività è tutto.
Ecco, gli speculatori. Non rappresentano un problema? Non creano sfiducia rispetto alla volatilità del valore di Bitcoin?
Gli speculatori non sono un male, al contrario: più ce ne sono, più il prezzo si stabilizza. Sono anche loro che conferiscono valore alla moneta rischiando i propri soldi. L’immagine negativa che si ha della speculazione è imposta dagli organi di propaganda. Le vere speculazioni sono le iniziative che Stati e Banche centrali avviano sulle proprie monete per influenzare il mercato. La nostra visione punta proprio a privare i poteri forti di queste prerogative.
E questa vostra forte connotazione politica non influenza l’opinione pubblica, allontanandola dall’uso della criptomoneta?
Ne dubito. All’interno della comunità internazionale è uno dei temi prevalenti, ma all’esterno, anche tra quelli che cominciano a informarsi, rimane una questione in secondo piano.
A proposito di poteri forti. La scorsa settimana Microsoft ha cominciato ad accettare Bitcoin, tramite il servizio Bitpay, sui marketplace di Windows, Windows Phone e Xbox. L’arrivo dei grandi – si vocifera addirittura di PayPal – non rischia di mettere in crisi l’approccio ultrademocratico della community?
Per me l’ingresso di giganti come Microsoft all’interno del circuito è un’ottima notizia. Aiuteranno a stabilizzare il prezzo di Bitcoin e genereranno un effetto moda: quando si parla di innovazione, in un Paese come l’Italia deve sempre muoversi prima qualcuno di grosso, gli altri poi seguono.
Abbiamo detto che l’Italia è il fanalino di coda. Come va all’estero: chi sono i più forti utilizzatori di Bitcoin?
I cinesi. Non è solo una questione di grandi numeri. Per cultura sono grandi giocatori, amano il rischio, quindi si fanno meno problemi degli occidentali a usare Bitcoin, a scambiarli e anche a fare mining. A quanto ne so, c’è pure un altro motivo: il governo cinese impone precisi regimi reddituali, e la criptomoneta può aiutare a evitare controlli, soprattutto nel trasferimento di fondi all’estero.
Il mining… Quanto costa oggi “produrre” Bitcoin?
Tantissimo. In Italia non è assolutamente profittevole: per avviare attività di mining che rendano qualcosa bisogna sostenere costi energetici proibitivi, occorre hardware per centinaia di migliaia di euro e con decine di terabyte di capacità, oltre che naturalmente ampie conoscenze tecniche e informatiche. È ormai materia solo per professionisti del settore.
Quali sono le prospettive per l’anno prossimo, anche dal punto di vista dell’apprezzamento?
Il prezzo sale in base alla fiducia che c’è nel sistema. In questo momento c’è molta incertezza. Sia perché in tutto il mondo si continua a parlare di regolamentazione, sia perché nel corso del 2014 non ci sono state tecnologie e soluzioni dirompenti, tali da soddisfare le grandi aspettative che si erano formate un anno fa, quando il valore di Bitcoin aveva sfiorato i mille dollari (oggi siamo intorno ai 400, ndr). Sono convinto che nei primi mesi del 2015 l’introduzione di alcune innovazioni, a partire da un più ampio uso di transazioni multisig e dall’adozione massiva degli oracoli, con cui sarà possibile effettuare scambi più sicuri e in base a informazioni referenziate, riuscirà a soddisfare il precedente hype.